La scoperta dell’anello di pane carbonizzato a Pompei ci lascia con molte domande senza risposta, ma una archeologa culinaria ha rintracciato le sue radici e identificato la ‘ciambella’ di Pompei.
Questo articolo, scritto e realizzato da Farrell Monaco, è stato tradotto in italiano utilizzando l’articolo originale scritto dalla stessa autrice, pubblicato in inglese dalla BBC il 7 aprile 2023.
Pompeii, 79 d.C.
Era poco dopo mezzogiorno quando il fornaio uscì dalla porta principale del suo negozio in una piccola stradina secondaria . Aveva bisogno di aria fresca e di un momento per se stesso. Era stata una notte intensa di macinazione e panificazione.
Il suo ultimo lotto di pagnotte era nel forno del panificio, e i cavalli da mulino erano in una stalla vicina – immobili e riposanti – dopo ore di cammino in circolo al suono emesso dallapietra che raschiava contro la pietra, informando tutti coloro a portata d’orecchio alla ricerca di meritato riposo notturno, che il grano veniva macinato in farina per la preparazione del pane quotidiano di Pompei. L’unica cosa necessaria prima che il fornaio potesse chiudere a chiave e riposarsi un po’, era che il suo venditore ambulante facesse ritorno con la cesta e l’incasso degli anelli di pane venduti per le strade. Era in ritardo e questo era insolito per il venditore, che era costantemente puntuale.
Il terreno aveva tremato per tutta la mattinata, come accadeva di tanto in tanto negli ultimi anni, e l’aria aveva un odore particolare: qualcosa di simile a un uovo che aveva cominciato a marcire. Gli occhi del fornaio erano fissi su una nuvola scura sopra al Vesuvio quando lo udì per la prima volta: il rumore improvviso di qualcosa che cadeva, in grande quantità, sui tetti di tegole sopra la testa e sul terreno di fronte a lui. Accovacciatosi per dare un’occhiata più da vicino, il fornaio si rese conto che si trattava di pietre che cadevano dal cielo: sassolini fumanti simili a spugna.
Senza un attimo di esitazione, si voltò e attraversò rapidamente la porta del suo panificio e raccolse le sue cose. Non sarebbe rimasto indietro questa volta, come aveva fatto durante il terremoto che aveva raso al suolo la precedente panetteria della sua famiglia 17 anni prima, uccidendo suo padre e due cavalli da mulino.
In pochi minuti, il fornaio chiuse a chiave le porte della sua panetteria, lasciando 81 pagnotte dipanis quadratus all’interno del forno. Poi, recuperò i suoi cavalli dalla stalla e uscì dalle porte meridionali di Pompei lungo una strada che lo avrebbe portato alla città di Nuceria, a circa 20 km a est.
Nelle successive 18 ore, la città romana di Pompei sarebbe stata sommersa da cenere e pietre pomici. Dopo questa notte buia, fu poi inghiottita da una serie di letali e devastanti flussi piroclastici e ondate di terra durante le fasi finali di una delle più violente e devastanti eruzioni vulcaniche registrate della storia: l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Circa 1.800 residenti pompeiani persero la vita nelle loro case, nei loro luoghi di lavoro e per le strade.
E sarebbero passati secoli prima che il pane del fornaio fosse ritrovato.
La distribuzione del pane a Pompeii
Basandomi sulle prove della distribuzione del pane a Pompei fin dalla sua scoperta, non è stato difficile per me, una archeologa classica che studia e ricrea i pani dell’antica Grecia e di Roma, ipotizzare come sarebbero potuti essere gli ultimi momenti per un fornaio con una bottega piena di pane, o per un venditore ambulante, il giorno in cui il Vesuvio eruttò.
Ho passato gli ultimi sette anni a studiare queste antiche culture del pane e i resti di pane carbonizzato trovati a Pompei ed Ercolano, tra cui le ben documentate pagnotte di panis quadratus pre-segmentate che furono poi scoperte nel 1862 nel forno del panificio abbandonato – ora denominato “Il Panificio di Modesto“.
La popolarità di questo pane dalle proporzioni simmetriche tra i pompeiani del I secolo, è magnificamente rappresentata in un affresco che un tempo adornava una parete del tablino all’interno della Casa del Panettiere, una residenza pompeiana situata vicino al panificio. Mentre continua il ricorrente dibattito sul fatto che l’affresco ritragga un’immagine raffigurante la vendita di pane in un panificio oppure un magistrato che distribuisce pane ai suoi elettori, pochi hanno notato il grande volume di piccole pagnotte a forma di anello ammucchiate in un cesto dietro al bancone del chiosco e lontano dalla portata di coloro che si trovano di fronte. Sulla base della loro posizione nell’immagine, queste pagnotte erano chiaramente pensate per un altro uso e un’altra forma di distribuzione.
Probabilmente venduti per le strade da venditori ambulanti, come quello nella storia sopra citata, questi anelli poco conosciuti erano un tempo considerati come un ritrovamento archeologico minore. Tuttavia, ho deciso di comprendere la loro origine, le loro modalità d’impiego, – e persino come avrebbero potuto essere chiamati e quale sapore avrebbero potuto avere.
Pompei, 1821
Decenni prima della scoperta del Panificio di Modesto nel 1862, nel settembre del 1821, un gruppo di archeologi italiani iniziò un’altra giornata nel sito di Pompei continuando i lavori di scavo lungo una stradina secondaria a nord del principale foro civico della città. Il 5 settembre, il gruppo scavò quella che hanno identificato come una bottega, che si trovava tra il Panificio di Modesto e il foro della città. Gli archeologi si sono fermati a farsi domande su qualcosa che avevano rinvenuto all’interno della bottega: una piccola pagnotta a forma di ciambella, perfettamente conservata, accompagnata da una manciata di castagne, fichi secchi e prugne secche.
Carbonizzato eppure intatto, l’anello di pane somigliava a qualcosa che ben conoscevano nella loro vita quotidiana, e così hanno documentato il ritrovamento come una ciambella, nome generico per pani, pasticcini e biscotti che avevano la forma di un anello che è presente nel vocabolario culinario italiano registrato sin dai libri di cucina dell’era rinascimentale, come L’Opera di M. Bartolomeo Scappi.
Tuttavia, come ci ha mostrato chiaramente la scoperta fatta a Pompei, i prodotti di grano a forma di anello risalgono a molto prima dell’Italia rinascimentale e non erano sempre chiamati ciambelle, lasciandoci con molte domande senza risposta: qual era il loro scopo originale? Come si chiamavano gli anelli di pane di Pompeii nel 79 d.C.? E al giorno d’oggi, sono ancora presenti “discendenti” di questo pane nella regione mediterranea?
L’anello di pane carbonizzato misura circa 7 cm di diametro, probabilmente è fatto di farina di grano duro o tenero e getta nuova luce sul ruolo che il pane giocava nella vita quotidiana dei romani e, come avrei scoperto, è un probabile antenato di alcuni dei pani che vediamo oggi in Italia e altri ex territori romani.
Il fatto che l’anello sia stato scavato accanto a un piccolo numero di castagne carbonizzate, fichi secchi e prugne secche, significa che i reperti potrebbero essere stati acquistati da uno dei venditori di alimentari o panifici nelle vicinanze. Dopotutto, la bottega in cui è stato trovato si trovava in una stradina laterale che non solo era direttamente di fronte al Macellum (un grande mercato alimentare), ma si trovava anche vicino a molti altri negozi di alimentari.
A seguito dello scavo completo della bottega nei primi anni del 1800, la via laterale prese il nome di “Strada dei Frutti Secchi”, poi mutata in “Via degli Augustali“. Col senno di poi, forse un nome più adatto sarebbe stato “Strada dei Panifici”, o “Via dei Panifici”, poiché i continui scavi avrebbero infine rivelato che la strada ospitava la più alta concentrazione di panifici commerciali di tutta Pompei.
Oltre al traffico commerciale in generale, questa “Via dei Panifici” sarebbe stata protagonista di un viavai di grandi quantità di grano, farina e pane trasportati da facchini e venditori ambulanti. Questa scena è stata dipinta su di una lapide rinvenuta all’estremità occidentale della strada e raffigurante due facchini che trasportano sulle spalle un’anfora per il trasporto di viveri. E un’altra rappresentazione di un food runner al lavoro per le strade di Pompei è stata recentemente scoperta durante gli scavi del 2020.
Chiaramente, i trasportatori di cibo e i venditori ambulanti erano parte integrante della Pompei del I secolo, rendendo la scoperta dell’anello di pane, a pochi passi da diverse panifici commerciali e negozi con attrezzature per cucinare, tutt’altro che casuale. Altrettanto intrigante, però, era la forma ad anello del pane, che suggeriva che questa fosse correlata non solo all’estetica culinaria dell’epoca, ma anche alla sua funzione. Mi sono quindi chiesta se questa sua forma fosse correlata alla modalità di trasporto o alla facilità nella sua conservazione.
Inizialmente ho accarezzato l’idea che la ciambella potesse trattarsi dei resti del buccellatum, un biscotto essiccato che si riteneva venisse legato con lo spago e prodotto per il consumo militare romano. Tuttavia, oltre alla minima presenza militare attiva a Pompei, non c’erano prove concrete che il buccellatum fosse un pane a forma di anello prima del X secolo d.C., , quando l’imperatore bizantino, Costantino Porphyrogennetus, affermò: “boukellos è il nome di una pagnotta a forma di anello“.
Così, mi sono chiesta se il pane fosse destinato al trasporto, e ho indagato ulteriormente.
L’anello di pane davanti Roma
La prima prova conosciuta di anelli di pane nella documentazione archeologica proviene da un sito preistorico situato sul confine austro-slovacco.
Risalenti al X secolo a.C., tre anelli a base di grano, insieme ad altri 14 anelli fatti di argilla, furono intenzionalmente sepolti alla base di una fossa come offerta rituale. Il pioniere europeo della storia del pane, Max Währen, ha registrato la prima prova archeologica di piccoli anelli di pane nella regione mediterranea come scoperta sull’isola egea di Creta: una ciotola per offerte in terracotta minoica di 4000 anni che presentava una serie di piccoli anelli di terracotta che rivestivano la base interna del vaso, a simboleggiare l’offerta votiva di vero pane. Tra il XIII e il VI secolo a.C. sono presenti anche nel patrimonio archeologico nuragico della Sardegna.
Inoltre, gli archeologi Nicholas Verdelis e John Salmon hanno notato prove archeologiche di pani sacrificali in terracotta a forma di anello nei templi del VI secolo a.C. situati negli insediamenti corinzi di Solygeia e Perachora in Grecia. Verdelis e Salmon hanno spiegato che si credeva che le offerte fossero associate al culto di Hera: la dea greca delle donne, del matrimonio, della famiglia e del parto.
Nell’Italia meridionale invece, le archeologhe Marina Ciaraldi e Milena Primavera hanno portato l’attenzione su di un sito del VI secolo a.C. e su cinque anelli di pane carbonizzato che furono depositati come offerte in un santuario situato a Monte Papalucio, Oria, che un tempo faceva parte delleex Colonie greche dell’Italia meridionale conosciute come Magna Grecia. I reperti archeologici del santuario mostrano anche che il grano macinato veniva usato per creare piccoli pani a forma di anello come offerte a Demetra: l’antica dea greca del raccolto.
I resti archeologici di anelli di pane in ambienti greci sono affascinanti per due motivi: la loro associazione con divinità femminili e la loro presenza nei santuari dell’Italia meridionale. Vedete, Pompei non è sempre stata una città romana: molto prima che il generale romano, Lucio Cornelio Silla (Sulla), facesse stabilire i suoi veterani militari in pensione come primi coloni romani di Pompei, la città era fortemente influenzata dalle culture osca, etrusca, sannita e greca. Come tale, la pratica di offrire pani sacri ad anello osservati nelle modalità rituali greche del VI secolo aC inizia ad emergere, secoli dopo, anche in ambienti e scritti romani.
Pani sacri e ciambelle a Roma e Pompeii
Nel I secolo a.C., il poeta romano Varrone ci parla di libum (pl. liba), un termine generico per i dolci sacrificali che venivano offerti come “libagioni” agli dei, e dal I secolo d.C., sculture in rilievo di sacrifici di sangue in ambientazioni romane raffigurano le ciambelle come un’altra forma di pane sacro. Nella cultura romana era comune la pratica di offrire “torte” agli dei per compiacerli e chiedere favori. Le focacce stesse erano fatte di grano o orzo, con l’aggiunta talvolta di formaggio fresco o miele, ed erano paragonabili a un moderno biscotto o pane dolce.
Nel I secolo d.C., il poeta romano Ovidio ci racconta della festa romana dei Vestalia, che si teneva ogni anno a giugno in onore di Vesta, la vergine dea del focolare. Durante la festa, gli asini venivano inghirlandati con pane e ghirlande.
Nel II secolo d.C., nella sua opera intitolata De verborum significatione, il grammatico romano Sesto Pompeo Festo parla dell’Ottobre Equus, che era un cavallo da guerra sacrificato ogni anno il 15 ottobre nel Campo Marzio a Roma. Festo spiegò che la testa del cavallo era avvolta con il pane come parte del rito.
Mentre l’Impero Romano d’Occidente si stava avvicinando al collasso e il cristianesimo stava lentamente emergendo come nuova religione di stato di Roma, il pane ad anello mantenne il suo ruolo costante di pane sacro fino all’era del primo cristianesimo nell’antica Roma.
Ad esempio, un affresco risalente al III secolo d.C. nelle catacombe cristiane di San Callisto raffigura il miracolo dei “pani e dei pesci”, come riportato nel Nuovo Testamento (Matteo 14:13- 21), con due pesci e un cesto contenente cinque ciambelle. Questo era il numero esatto di pesci e pani che Gesù moltiplicò durante il pasto comunitario “Nutrizione dei cinquemila”, che spesso viene interpretato come un anticipazione dell’Eucaristia. La presenza di questi pani storicamente sacri nell’iconografia paleocristiana può anche riflettere il ruolo di questi pani nella chiesa primitiva, come indicato dal papa romano del III secolo, Zefirino, che chiamò il pane sacro corona consacrata. L’uso di queste pagnotte circolari nell’iconografia cristiana è visibile anche nell’XI secolo a Salerno, come ricorda Lucinia Speciale, professoressa della storia dell’arte medievale, che registra la presenza del pane in quattro placchette eburnee dalla Cattedrale di Salerno, della stessa epoca.
Con rappresentazioni così ricche di pane nell’archeologia, nell’arte e nella letteratura antica, ci chiediamo finalmente: come erano chiamati questi pani sacri e gli anelli di Pompei nell’antichità?
Arculata: ciambelle sacrificali dell’antica Roma e sue controparti greche
Festo affermò che “gli anelli fatti di farina per i sacrifici si chiamavano ‘arculata‘“, che segue la sua definizione di arculum, “un copricapo simile a una corona indossato quando si trasportano vasi sacri durante i sacrifici pubblici”. Per i greci, l’arculata potrebbe essere stata conosciuta come ‘kollix‘/’kollikia‘ o ‘kollyra‘, che si ritiene sia la radice etimologica del moderno pane ad anello greco noto come koulouri, e la sua controparte dell’Italia meridionale, cuddura.
Come spiegato da Ally Kateusz, ricercatore associato senior presso il Wijngaards Institute of Catholic Research con sede nel Regno Unito, il vescovo greco-cipriota ortodosso, Epifanio di Salamina, documenta una cosiddetta setta eretica di sacerdotesse chiamate ‘Kollyridiane’ nel IV secolo dC. Queste donne preparavano piccoli dolci di grano sacrificali chiamati kollyris e li offrivano a Maria, la vergine madre di Gesù, più o meno nello stesso modo in cui i pani ad anello venivano offerti a Era e Demetra nei santuari greci 800 anni prima. Se kollyris fosse stato fatto come altri dolci storicamente offerti alle divinità femminili nell’antica Grecia, allora anch’esso assumerebbe anche la forma di un anello.
Napoli, l’età moderna
All’inizio del periodo moderno, il pane ad anello era lentamente migrato dal regno del sacro a quello del profano, come uno spuntino ordinario venduto per strada a dei comuni passanti. Ventuno anni dopo lo scavo del primo anello di pane di Pompei, un secondo anello di pane fu rinvenuto a Pompei da una casa lungo Via dell’Abbondanza nel 1842. Questa volta sarebbe stato identificato più specificamente dagli archeologi come un tarallo, un biscotto di pane a forma di ciambella a doppia cottura tipicamente fatto con farina, strutto e pepe nero, che era facilmente reperibile presso i venditori ambulanti per le strade di Napoli (circa 23 km a nord-ovest di Pompei) durante il periodo della sua scoperta.
Melissa Calaresù descrive una cultura molto attiva e competitiva dei venditori di cibo per le strade di Napoli, vista attraverso la lente di dipinti e documenti ufficiali relativi ai tentativi della città di tassare e controllare i luoghi dove gli ambulanti di cibo potevano vendere le loro prodotti. Afferma che la maggior parte degli abitanti dell’Europa moderna acquistava il cibo per strada, proprio come facevano i pompeiani 1.700 anni prima, e proprio come si faceva in altre città europee nello stesso periodo di tempo.
Per le strade di Grecia, Turchia e Israele, i pani venduti per strada sarebbero diventati noti rispettivamente come koulouria, simit e ka’ak. Nell’Italia meridionale e nell’Europa orientale, i pani noti come cuddura, buccellato, guccidatu, e kolach manterrebbero ancora i loro legami con le antiche feste religiose e simboli fino ai giorni nostri. E a Napoli, i cibi di strada includevano il pane di ambella noto come taralli, freselle/friselle e ciambelle.
Un amico della mia famiglia, Vito Somma, ricorda bene i venditori ambulanti di taralli nel suo quartiere napoletano di ‘Vasto’ nel 1960. Non molto tempo fa, i tarallàri camminavano lungo la via Ferrara sotto l’appartamento in cui lui e suo fratello Antonio sono cresciuti. Portando un cesto, o spingendo il carro su per la strada, si sentivano gridare “‘nzugna!” (“Taralli fatti con strutto e pepe!”) mentre si avvicinavano. Le famiglie che vivevano nei condomini che fiancheggiavano la strada si affacciavano ai loro balconi e calavano in strada un cesto attaccato ad una corda che conteneva abbastanza lire per comprare tutti i taralli di cui avevano bisogno per la giornata. Quando il cesto veniva issato , i soldi non c’erano più e al loro posto erano stati consegnati taralli caldi e fragranti.
Questa tradizione di vendere ciambelle per le strade di Napoli continuò per altri tre decenni fino a quando l’ultimo tarallàro di Napoli, Fortunato Bisaccia, ritirò il suo carretto nel 1995. Ma, proprio come i graffiti che adornano gli edifici nella Napoli moderna sono una caratteristica del paesaggio culturale che la città condivide con il suo antico sé, forme di pane radicate e storiche rimangono anche nel tessuto culturale attuale.
In un dato giorno, una passeggiata fuori dai sentieri turistici battuti di Napoli rivelerà ancora una solida cultura tradizionale del pane e della panetteria, viva nei mercati di strada e nelle panetterie a conduzione familiare che portano avanti le forme discendenti del pane arculata e di altri pani greco-romani.
Vedete, la maggior parte delle 10.000 persone che vivevano a Pompeii durante il 79 d.C. fuggirono dall’eruzione del Vesuvio e sopravvissero. E la continuità di quelle vite, dei loro costumi e tradizioni, è qualcosa che spesso viene offuscato dall’emozione e dalla devastazione associata alla distruzione della città. Coloro che sono scampati al disastro, siano essi fornai che abbandonarono il loro pane in forno o venditori ambulanti che abbandonarono il loro posto di lavoro, ricominciarono a vivere, integrandosi nei paesi e nelle città circostanti che punteggiano le coste del Golfo di Napoli. E la vita, e il pane, continuarono.
Ricetta Arculata (una ricreazione moderna)
per Farrell Monaco
Questa ricetta produce 13 anelli d’arculata: 12 per servire e uno per offrire. Ogni anello avrà approssimativamente le stesse dimensioni dell’esemplare archeologico.
Considerazioni sulla preparazione
Questo è un prodotto a base di lievito madre. Inizia alimentando il tuo lievito madre il giorno prima di iniziare l’impasto. Se non hai un lievito madre, puoi crearne uno il giorno stesso mescolando 15 g di farina (1/8 di tazza) con 30 g di acqua (1/8 di tazza) e aggiungendo 2 g (1/2 cucchiaino) di lievito secco attivo. Mescolare, lasciare attivare e mettere da parte fino a quando non raddoppia di dimensioni ed è pronto per essere adoperatoper l’impasto.
Metodo
- Unire l’acqua, il miele, ricotta e lievito e frullare delicatamente il tutto.
- In una grande ciotola, aggiungere la farina al composto precedentemente ottenuto e lavorarla insieme fino a quando non diviene denso e inizia a formare una massa coesa.
- A questo punto, aggiungi sale mentre impasti e lavori il colposto. Spolverare con la farina se l’impasto risulta appiccicoso (soprattutto se si incorpora la ricotta). Quando il sale è stato aggiunto gradualmente e l’impasto è diventato una massa più coesa, riporlo nella ciotola, coprirlo con un canovaccio umido e lasciarlo riposare per 1 o 2 ore.
- Dopo che l’impasto si è completamente riposato, impastare, lavorando per 10 minuti su di una superficie spolverata di farina.
- A questo punto, formare un panetto, coprirlo ancora per farlo lievitare fino a raddoppiarne le dimensioni. Se la tua cucina è sul lato più fresco, posiziona l’impasto in una zona calda della cucina vicino al forno o a una fonte di luce.
- Spolverare un piano da lavoro pulito con la farina e rovesciarvi delicatamente l’impasto dalla ciotola di miscelazione . L’impasto deve essere leggero e flessibile. Se risulta ancora pesante e sodo, lasciarlo lievitare più a lungo.
- Preriscalda il forno a 220 ° C (425 ° F).
- Appiattire delicatamente e distribuire il composto su di un piano da lavoro spolverato di farina fino a quando non raggiunge uno spessore di circa 2 cm e mezzo.
- Formare con l’impasto un rettangolo lungo piegando due volte il composto su se stesso. Usa un raschietto da banco o un coltello grande per tagliare 13 strisce lineari di pasta. Usando una bilancia mentre lavori, cerca di assicurarti che ogni striscia di pasta pesi circa85 g. Se non si dispone di una bilancia o di un raschietto, questo processo può anche essere eseguito utilizzando il bordo di una tazza o un cutter circolare di circa 7 cm (23/4 pollici) di diametro.
- Prendi ogni striscia di pasta e arrotolala delicatamente formando un salsicciotto aiutandoti con il palmo delle mani. Usa un po ‘di farina sulle mani se l’impasto è appiccicoso. Prendi le estremità del salsicciotto e appoggiale l’una sull’altra, come se andassi a formare i un nodo. Premere gli estremi insieme a formare delicatamente un anello uniformemente proporzionato. Se si utilizza una tazza o un taglierino, è sufficiente premere per ottenere un foro al centro del disco ed espandere il foro con le dita fino a raggiungere un diametro di circa 3 cm.
11. Mettere gli anelli ottenuti in una ciotola di farina e spolverarli leggermente fino a creare un rivestimento di farina stessa, rimuovere la farina in eccesso e posizionarli delicatamente su di una teglia disponendoli a 2,5 cm o più di distanza. Opzionale: potresti voler condire gli anelli con semi di sesamo, come la koulouria greca e il ka’ak mediorientale, o con semi di Nigella come il simit turco. Se è così, glassare leggermente gli anelli di pasta (usando la ricetta della glassa sopra) dopo aver formato gli anelli e girarli delicatamente all’interno di una ciotola contenente i semi in modo che sia la parte superiore che quella inferiore ne siano coperti. Non spolverare gli anelli con farina se li condisci con semi di sesamo o Nigella.
12. Cuocere gli anelli per 20-25 minuti o fino a quando la crosta inizia a diventare color bronzo.
Degustazione e abbinamenti
Per servire, disporre 12 arculata su un piatto o su piatti monoporzione accanto a fichi secchi, prugne e castagne. Questo rappresenta un pasto – o forse un’offerta – abbandonato da un residente pompeiano in un negozio sulla Via degli Augustali durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Infine, metti da parte il tredicesimo anello come offerta a Era o Demetra, alle vergini Vesta o Maria, alle nonne della Grecia e dell’Italia, o ai fornai e ai venditori ambulanti del passato e del presente.
Farrell Monaco è un archeologa classica, panettiere e scrittore. Attualmente è una Honorary Visiting Fellow visiting fellow at the School of Archaeology and Ancient History dell’Università di Leicester (Inghilterra). È la vincitrice del Best Special Interest Food Blog Award 2019 di Saveur Magazine e l’autrice del libro di prossima pubblicazione: Panis: The Story of Bread in Ancient Rome.